I Giudici
Il Giudice Antonino Saetta
Antonino Saetta, probo Magistrato Canicattinese
Chi va a visitare il cimitero di Canicattì, entrando dall'ingresso centrale di Via Nazionale, trova sotto la religiosa pace dei cipressi, a sinistra del viale che sale diritto verso le cappelle gentilizie d'inizio secolo, un’austera tomba di pietra flavente. Vi riposano il giudice Antonino Saetta e il figlio, uniti nella stessa sepoltura, sormontata da una doppia stele in cui si librano, cadendo dal libero cielo feriti a morte, un'aquila e un aquilotto. Padre e figlio, stretti insieme in un abbraccio eterno. Insieme furono uccisi dalla mafia la sera del 25 settembre 1988. "Insieme - si legge nell'epigrafe - riposano perennemente vivi nella memoria della gente onesta". E al visitatore che vi giunge la lapide ricorda che Antonino Saetta, magistrato di Cassazione, "pagò con la vita l'aver compiuto con fermezza e coraggio il suo dovere di giudice".
A questo dovere aveva egli votato tutto se stesso, consapevole della sacralità della sua missione di difensore della giustizia, contro ogni iniquità, contro ogni violenza e sopraffazione. Egli si prodigò sempre con rettitudine assoluta per l'affermazione del diritto e il trionfo della ragione. Nel corso della sua vita mai ombra alcuna offuscò la limpidezza del suo operato. Egli impegnò nel suo delicato lavoro tutte le forze del suo animo e della sua mente, senza badare a se stesso e ai rischi cui andava incontro. Compì sempre il suo dovere senza ostentazione, con serietà e dignità, nel sacro rispetto della legge. Per la sua riservatezza, la sua saggezza e la sua umanità era molto stimato ed apprezzato dai colleghi magistrati e da quanti gli stavano vicino.
Quando fu ucciso, non aveva ancora compiuto i sessantasei anni: al suo compleanno mancava un mese. Era nato a Canicattì il 25 ottobre 1922. Da quarant'anni si trovava in magistratura, carriera che aveva intrapreso giovanissimo, nei primi anni del dopoguerra, dopo aver portato a termine, pur tra i gravi disagi del conflitto mondiale, gli studi classici, conseguendo, con il massimo dei voti e la lode, la laurea in giurisprudenza. Con la sua spiccata intelligenza, la sua solida preparazione e le sue doti professionali e umane si era fatto celermente strada in magistratura, fino a rivestire la carica di consigliere di Corte d'Appello nella città di Genova.
Alla famiglia era molto legato. Si era sposato con la concittadina dottoressa Luigia Pantano, laureata in farmacia. Aveva tre figli: Stefano, Gabriella e Roberto. Stare con la famiglia era il suo più ardente desiderio; avvicinarsi quanto prima, nella sede di servizio, alla sua casa di Canicattì la sua costante aspirazione. Della città natale, come si legge sul Giornale di Sicilia del 27 settembre 1988, "mai si era rassegnato a perdere le radici, nonostante le sue peregrinazioni". I momenti di maggiore serenità erano quelli che trascorreva a Canicattì, in famiglia, accanto ai suoi cari.
Nel 1978 aveva ottenuto il trasferimento a Palermo e alcuni anni dopo, nel 1984, a Caltanissetta in qualità di presidente di Corte d'Assise. Poi dal Consiglio Superiore della Magistratura era stato mandato di nuovo a Palermo, con la promozione di Presidente della Prima Sezione della Corte d'Appello. E proprio sulla strada per Palermo, tra Canicattì e Caltanissetta, una fredda sera di una domenica autunnale, fu fermato per sempre dalla mafia, mentre ritornava con il figlio nella sua nuova sede di lavoro, dopo avere trascorso una serena giornata in famiglia.
Ai funerali svoltisi nella Chiesa Madre di Canicattì e officiati da mons.Luigi Bommarito, arcivescovo di Catania ed emerito vescovo di Agrigento, erano presenti il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, i ministri Giuliano Vassalli e Sergio Mattarella, il presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana Salvatore Lauricella, il sindaco Giuseppe Aronica e i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Tutta Canicattì partecipò commossa alle solenni esequie.
prof. Diego Lodato
Il Giudice Rosario Livatino
Rosario Livatino, giovane-grande Giudice Canicattinese
La mafia che la mattina del 21 settembre 1990 tese sulla superstrada Canicattì-Agrigento il mortale agguato a Rosario Livatino, giovane magistrato appena trentottenne, stroncò una lucida intelligenza e fermò per sempre un generoso cuore, che si era costantemente prodigato per "dare alla legge un'anima". Questo doveva essere, infatti, secondo Livatino, il primario compito del giudice: dare un volto umano all'astratto comando della legge, come ebbe solennemente ad affermare in una sua dotta conferenza, tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986, conferenza in cui pose a suggello questa emblematica affermazione: "Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico".
Fu questo il principio che lo guidò costantemente nelle sue funzioni di magistrato, convinto com'era che la legge andava applicata con il contributo e la partecipazione delle doti della mente e del cuore. Tali doti rifulsero in lui fin dai primi anni dell'infanzia, che egli trascorse nella casa di Viale Regina Margherita, dove si erano stabiliti i suoi genitori poco tempo dopo la sua nascita. A Canicattì egli era venuto alla luce il 3 ottobre 1952 e fin da piccolo aveva cominciato a dar prova di intelligenza, di saggezza e di bontà. Alunno di scuola elementare, aveva dimostrato, pur con la sua tenera età, una saggezza e una prontezza d'ingegno tali, da indurre il suo anziano maestro a definirlo, più che eccellente, eccezionale. Agli esami di licenza media, superati brillantemente nell'anno scolastico 1965-66, ebbe il giudizio più alto che si possa attribuire agli alunni. Ottime furono ritenute le sue capacità; ottima la sua preparazione e anche la sua formazione umanistica; sicché il consiglio che gli si diede, per l'orientamento sulla prosecuzione degli studi, fu quello dell'iscrizione al Liceo classico. E in tale scuola, nei cinque anni di corso, con il suo carattere riservato, frutto di finezza di educazione e delicato senso di discrezione, si mostrò sempre con tutti cordiale e generoso.
Non c'era disciplina al cui studio egli non si applicasse con totale dedizione. Pur avendo particolare propensione per gli studi classici, eccelleva in tutte le materie, riportando sempre il massimo dei voti. La laurea in giurisprudenza, conseguita con centodieci e lode, coronò degnamente il suo curriculum scolastico, ma non gli fece abbandonare l’applicazione allo studio, anzi lo predispose maggiormente ad ampliare ed arricchire il suo pur vasto patrimonio culturale.
Vincitore di concorso, assolse i suoi primi impegni di lavoro presso l'Ufficio del Registro di Agrigento, meritandosi, per la sua instancabilità, affabilità e modestia, la stima e l'affetto di tutti. Otto mesi soltanto bastarono a Rosario Livatino per lasciare nei suoi colleghi e nei superiori un ricordo indelebile. Poi passò in magistratura: ed alla giustizia consacrò integralmente se stesso, per difendere la dignità dell'uomo, tutelare la civiltà giuridica e impedire che avesse il sopravvento la barbarie.
Il lavoro e la famiglia furono i due poli di maggiore impegno della sua vita. Quando terminava il suo lavoro al Palazzo di Giustizia, continuava a casa l'esame e l'approfondimento delle carte e dei fascicoli giudiziari. E spesso fino a tarda notte, seduto alla scrivania del suo austero studio, sulla quale teneva sempre una copia del Vangelo, restava chino sugli atti processuali, rimettendoci il riposo e il sonno. Era invero un magistrato a tempo pieno. E quando i momenti di sconforto lo angosciavano, come si rileva dal suo diario personale, grande sollievo gli dava lo stare vicino ai suoi diletti genitori, dott. Vincenzo e Rosalia Corbo, verso i quali nutriva un affetto infinito. Bastava talvolta una breve gita in auto con loro per fargli esclamare nel suo diario: "Bella giornata trascorsa con i genitori!".
Ma ci sono anche nel suo diario annotazioni che rivelano la sua sofferenza di uomo consapevole dei gravi rischi cui ogni giorno andava incontro nell'assiduo compimento del proprio dovere. Questo suo umano soffrire ce lo fa sentire molto vicino, affratellato a noi dalla comune tristezza della condizione umana, come ce lo fa sentire vicino anche la semplicità cui egli ispirava quotidianamente la sua condotta di vita, che lo portava ad evitare ogni ostentazione della propria autorità. Se doveva talvolta recarsi in qualche ufficio per accudire a qualche pratica burocratica, rispettava pazientemente il turno come i comuni cittadini, evitando di farsi riconoscere, poiché non voleva far valere nessun privilegio a suo vantaggio.
Del giudice Rosario Livatino è stato detto, come si legge in una stele dedicatagli dai Lions di Siracusa, che "la sua vita esemplare assurge a simbolo di dirittura morale ed è, per tutti, richiamo e stimolo a quella tensione ideale, senza la quale non può che vincere la barbarie".
prof. Diego Lodato